Natalizie atmosfere di tempi lontani

di Anna Arcella

L’annunzio delle feste incipienti, lungo le vie del paese, in anni remoti, veniva dato, di buon mattino, dal suono di una chitarra, che accompagnava i canti intonati in onore di San Nicola e della Madonna da un vecchietto della vicina Sant’Onofrio. Allegre frotte di bambini si arrampicavano sui dirupi della “Costera” in cerca di “denachi”, steli delle infiorescenze dello sparto.

Per fare previsioni metereologiche attendibili, molta attenzione veniva prestata all’andamento del tempo durante i cosiddetti “Catamesi”, che avevano inizio il giorno di Santa Lucia e si concludevano la vigilia di Natale. Il tredici corrispondeva al mese di gennaio, il quattordici a quello di febbraio, il quindici a marzo, il sedici ad aprile, e così via, fino al ventiquattro che raffigurava dicembre. Durante i dodici mesi del nuovo anno si sarebbe ripetuto, questa era la convinzione, il tempo che vi era stato nei dodici giorni dei “Catamesi”.

Momenti di particolare, gioiosa aggregazione per tutta la comunità, erano le messe di preparazione al Natale. Alle quattro del mattino i rintocchi delle campane echeggiavano nelle umili, fredde case e spingevano fuori, verso la chiesa matrice, quasi tutte le famiglie, al completo, ragazzetti compresi. Le strade erano in prevalenza fangose e solo in qualche tratto rischiarate dalla fioca luce dei lampioni. Suppliva, però, il chiarore delle “Frache”, le fiaccole preparate, per tempo, legando stretti, con fili di ferro, i “denachi” raccolti sui greppi della collina.

L’antivigilia di Natale deliziavano il palato calde zeppole, tirate fuori da tegami colmi d’olio, appoggiati su neri treppiedi avvolti dalle vivide fiamme dei focolari.

“Dai monti oscuri” delle Serre, per lo più da Soriano e Sorianello, giungevano puntuali le ciaramelle, suonate da pastori con in testa berretti di lana a righe bianche e rosse, con lunghi ciondoli ricadenti sulle spalle.

In alcune famiglie, con devozione, venivano recitati, o cantati, componimenti poetici dialettali. Ed è appunto con dei versi dell’abate don Giovanni Conia di Galateo, membro dell’Accademia Florimontana di Monteleone, che ci piace concludere:

 

“Ntra menzannotti

Si fici jornu:

tuttu cca ntornu

scuru no nc’è.

 

Chi notti è chista?

Chi ssu sti vuci?

Comu sta luci

Cumpariu mo?

 

Su di allegrizza

Sti canti e soni:

nc’è cosi boni,

fortuna nc’è.

 

Li petri juntanu,

l’omani abballanu,

l’Angeli cantanu

lla lla ra rà.

………………..

Lu mundu è sarvu:

lu Sarvaturi,

lu Redentori

cumparsi già.

………………….

Quantu si beju

Caru Signori!

Vampi d’amuri

Minami cca.

 

Vogghiu m t’amu:

squagghia stu jelu:

e poi a lu Celu

portami Tu.”