"... Dimitrio "
una piccola roccaforte il cui territorio è fertile
aprile 1998
Nel volume "Antichità e luoghi della Calabria", nell'anno 1571, Gabriele Barrio, monaco di Francica, dopo aver parlato di Soriano, così scriveva: "Di poi, per chi va verso il mare, si offre DIMITRIO, una piccola roccaforte il cui territorio è fertile". "Dimitrio - San Domitri", sono nomi che indicano lo stesso villaggio: quello bizantino di Motta San Demetrio, ubicato su una delle tante ondulazioni che caratterizzano la valle del Mesima, perpendicolare al tratto di autostrada che collega la vicina Sant'Onofrio a Pizzo e ai paesi delle Serre.
"In loco", sono ancora visibili, tra alte felci, rovi, cespugli di erbe varie, mucchietti di sabbia, una fontana in muratura, sul cui frontespizio si legge la data 1342, ruderi, che, di anno in anno, diminuiscono sempre più di numero e di dimensioni, per le intemperie e, soprattutto, per l'indifferenza e l'incuria degli uomini. Negli anziani, la memoria di questo antico casale, limitrofo a Stefanaconi, è ancora viva. Documenti scritti, risalente ad epoche diverse, forniscono notizie di genere vario. Si sa che nel 1276 contava circa 2.007 abitanti, e, tra quelli vicini, era uno dei centri più popolati. Con il trascorrere del tempo, però, a causa dell’aria malsana, determinata dal ristagno del fiume Mesima, ostruito nel suo deflusso verso il mare dalla frane provocate dai frequenti terremoti, il numero delle persone residenti cominciò a diminuire. Nel 1532, infatti, erano solo 225; se ne contava 370 nel 1545; 425 nel 1561; 200 nel 1595 e nel 1648; soltanto 10 nel 1669, a dieci anni di distanza dalla catastrofica scossa tellurica che aveva indotto i superstiti a trasferirsi nelle confinanti terre di Stefanaconi e Sant'Onofrio.
Nella visita fatta dal Vescovo di Mileto il 14 maggio dell'anno 1700, “San Dimitri”, risultava privo della chiesa parrocchiale, intitolata a San Pietro. Tutto il territorio, compresa la cappella di Pajeradi, venne incorporato in quello di Stefanaconi, al quale, nelle ultime intestazioni feudali, si trova aggregato, sotto la voce "Terre di San Demetrio e Stefanaconi". L'eco del boato che accompagnò il sisma del 1659 si ha nel detto "Avi i quandu rumbau a Motta", citato per significare un evento molto lontano nel tempo. La data precisa della fondazione del borgo non è nota. Da atti riguardanti la Certosa, si apprende che, nell'anno 1125, il signore del castello aveva nome Bartolomeo e fece una donazione alla chiesa di Santa Maria dell'eremo di San Bruno.
A Motta San Demetrio, nell'anno 1622, dimorava un certo Tullio Madrè, che figura tra i miracolati per intercessione di San Domenico, titolare del convento omonimo di Soriano, come si può leggere in un testo riportato dal generale Luigi Pitimada, nell'opuscolo "RUDERI DELLA MOTTA SAN DEMETRIO IN CALABRIA". Nelle messe celebrate col rito ortodosso, viene varie volte ripetuta, con una cadenza particolare, l'espressione “ Santo, Santo forte!”, pronunziata spesso dagli anziani stefanaconesi, specie in momenti di particolare sofferenza e difficoltà. E' palese che l'influsso bizantino, fino a qualche decennio fa, perdurava nelle nostre contrade; così come si ostinavano a restare in piedi i probabili resti della cosiddetta "Chiesa greca", nel terreno detto ancora oggi "A chiesiola", in prossimità delle apparecchiature di controllo del metanodotto, lungo la strada che attraversa il "Piano Mangiascarpi".
Non lontano dalle località Pajeradi e San Basilio, sul "Piano" del fondo Barone si possono tuttora osservare mattoni di vario spessore e dimensioni, anche con tracce di fregi, quasi sicuramente appartenute all'importante abbazia basilana di San Giuliano, abbandonata dai monaci per le vessazioni di cui nei primi tempi della denominazione normanna furono oggetto, e, successivamente, non "risorta" per la completa rovina causata dai terremoti. All'occhio del visitatore, nell'anno 1650, il casale di Motta San Demetrio si presentava come un insieme di misere case, fatte di "breste" (mattoni di creta e paglia essiccate al sole), attraversate da due strade e da alcuni viottoli.
Oltre alla lontana chiesetta di Pajeradi e alla parrocchiale, nella quale
operavano il parroco, due sacerdoti e un chierico, all'inizio del paese ne
sorgeva una terza, ampia, dedicata a Santa Maria delle Grazie, collegata ad un
convento carmelitano nel quale dimoravano quattro monaci. "Fici
comu i monaci d'a Motta", recita un detto alludendo ad una beffa che si
ritorce a danno di chi l'ha ideata. I paurosi frati temevano i ladri. Per
sincerarsi dell'aiuto del vicinato, per ben due volte, di notte, senza alcun
reale pericolo fecero udire i rintocchi delle campane. Quando i ladri, effettivamente,
penetrarono all'interno del monastero, nessuno accorse, perché si pensò ad un
nuovo scherzo. Poco lontano dall'abitato vi era un mulino. Mancava la farmacia e
non era presente alcun medico. Da una sola fontana (quella che esiste
ancora) scorreva l'acqua usata, ed era di qualità "poco buona"; così come "poco
buona", specie d'estate, era l'aria, a causa dei miasmi diffusi dai ristagni
dell'acqua del Mesima. I proprietari dei campi contigui a
questo fiume e ai suoi affluenti, pagano tutt’ora, ogni anno, la cosiddetta
"Tassa di bonifica". "PAGLIOCASTRO", ubertosa contrada del villaggio, percorsa
dalla fiumara omonima, a detta di storici locali, significava ”Vecchio
castello". In tempi molto remoti pare sia stata
abita. Durante i lavori di sterro sono venute alla luce resti
umani e qualche particolare tipo di lucerna. Sempre
nell'anno 1650, nove anni prima del fragoroso "rombò
", l'intero "Stato" di Motta San Demetrio venne valutato ducati 23.300.
Nello stesso periodo, Stefanaconi, che possedeva un maggior numero di abitanti,
acqua e aria "di buona qualità", fu "apprezzata"
per ducati 32.600.
Sulla spianata dove erano state edificate le poderose mura del castello a quello attorno al cocuzzolo che fungeva da torre di difesa, oggi, quali strane sentinelle , vegliano, alti, i tralicci in ferro che sostengono i fili dell'alta tensione e, con i muri tappezzati da nidi di vespe, un fabbricato, conosciuto nei dintorni come "U casino d'a Motta", con pianterreno e primo piano, danneggiati da un incendio appiccato da ignoti. Greggi di tranquille pecorelle, ignare di tutto, strappano ciuffi d'erba al sabbioso terreno.